Assegno sociale: il diritto spetta anche in caso di rinuncia al mantenimento

L’assegno sociale spetta anche al richiedente che abbia rinunciato all’assegno di mantenimento a carico del coniuge separato, non essendo richiesto che lo stato di bisogno sia anche incolpevole. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 6 ottobre 2022, n. 29109.

La Corte d’appello di Trento respingeva il gravame avente ad oggetto il riconoscimento dell’assegno sociale, rilevando che l’interessata aveva rinunciato all’assegno di mantenimento a carico del coniuge separato e quindi non versava in stato di bisogno; la stessa Corte accoglieva, inoltre, la pretesa dell’INPS, volta ad ottenere la restituzione delle somme percepite fino al provvedimento di revoca assunto in autotutela.

La donna ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, censurando la stessa per l’ erronea interpretazione dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno sociale, con particolare riferimento allo stato di bisogno.

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, ribadendo i principi espressi in recenti pronunce rese in fattispecie analoghe.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno ricordato che la disciplina normativa di riferimento non prevede che la richiesta di assegno di mantenimento al coniuge separato possa rilevare né ai fini dell’accesso al diritto, né ai fini della misura dell’assegno sociale. La legge, difatti, prevede, al contrario, come unico requisito, uno stato di bisogno accertato, caso per caso, che, per essere normativamente rilevante, non deve essere anche incolpevole: la condizione legittimante per l’accesso alla prestazione assistenziale rileva, difatti, nella sua mera oggettività.
Il Collegio non ha, inoltre, mancato di rilevare che l’assegno sociale è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti: ne deriva che all’assistito è richiesto soltanto di formulare una prognosi riguardante i redditi percepibili in relazione allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della domanda, fermo restando che la corresponsione effettiva dell’assegno dovrà essere parametrata a ciò che di tali redditi risulti effettivamente percepito.
Ciò posto, la Corte ha ritenuto non conforme ai principi di diritto espressi la sentenza impugnata, avendo la stessa errato nel rigettare la richiesta sul rilievo che la rinuncia all’assegno di mantenimento possa equivalere ad ammissione dell’insussistenza dello stato di bisogno o comunque valga ad escludere la configurabilità di tale requisito.

Reddito/Pensione di cittadinanza: aggiornamento domanda telematica

Nel modello di domanda telematica di Reddito di cittadinanza e Pensione di cittadinanza la dichiarazione riguardante le misure cautelari e le condanne riferita al richiedente è stata distinta da quella dei familiari (Inps – Messaggio 07 ottobre 2022, n. 3684).

Tra i requisiti per l’accesso al reddito/pensione di cittadinanza è prevista, per il richiedente il beneficio, la mancata sottoposizione a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, nonché la mancanza di condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluni reati individuati dalla normativa (art. 7, co. 3, D.L. n. 4/2019) di riferimento.
A tal fine, il modello di domanda telematica di Reddito di cittadinanza (Rdc) e Pensione di cittadinanza (Pdc) prevede la dichiarazione di assenza di misure cautelari e delle condanne definitive.
L’Inps precisa che il “Quadro F” del modello di domanda telematica (Condizioni necessarie per godere del beneficio), nella parte riferita alle dichiarazioni in capo al richiedente e ai componenti il nucleo familiare in merito alle misure cautelari e alle condanne, è stato modificato separando la dichiarazione relativa al richiedente da relativa ai componenti del nucleo familiare.
La domanda è accessibile via web ai seguenti indirizzi:
– www.redditodicittadinanza.gov.it nella sezione “Richiedi o accedi”;
– www.inps.it/prestazioni-servizi/reddito-di-cittadinanza-e-pensione-di-cittadinanza.

Nuova contribuzione per la Cassa Edile di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia

In armonia con le disposizioni contrattuali di cui all’Accordo Nazionale del 22/9/2022, che hanno modificato la percentuale APE, la Cassa Edile delle province di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia, pubblica le nuove aliquote contributive in vigore dall’1/10/2022

Contributi

Totale (%)

Quota impresa (%)

Quota lavoratore (%)

Contributo Cassa Edile 2,25 1,875 0,375
Contributo Ape Nazionale (FNAPE) – Importo minimo € 30,00 2,17 2,17
Fondo Prepensionamenti (ex contributo “lavori usuranti”) 0,20 0,20
Fondo Incentivo Occupazione 0,1 0,1
Contributo Formazione Professionale 1 1
Quota Provinciale Adesione Contrattuale 1,48 0,74 0,74
Quota Nazionale Adesione Contrattuale 0,444 0,222 0,222
TOTALE CONTRIBUTI 7,644 6,307 1,337
Fondo RLST per le imprese che non hanno RLS interno 0,15 0,15
TOTALE CONTRIBUTI 7,794 6,457 1,337
Contributo Fondo Sanitario Operai 0,60 0,60

Area Legno-Lapidei Artigianato: una tantum a ottobre

 

 

  Spetta, con la retribuzione del mese di ottobre 2022, la prima seconda e ultima di una tantum per i dipendenti del CCNL Area Legno-Lapidei

 

L’accordo sottoscritto a maggio ha previsto, ad integrale copertura del periodo di carenza contrattuale, ai soli lavoratori in forza alla suddetta data,  un importo forfetario “una tantum” suddivisibile in quote mensili, o frazioni, in relazione alla durata del rapporto nel periodo interessato, pari a 150 euro.
L’importo “una tantum” è stato erogato in due soluzioni di pari importo: la prima con la retribuzione del mese di luglio 2022, la seconda con la retribuzione del mese di ottobre 2022.
 Agli apprendisti in forza alla data di sottoscrizione del presente accordo sarà erogato a titolo di “una tantum” l’importo di cui sopra nella misura del 70% con le medesime decorrenze sopra stabilite.

Esercizio del diritto di critica: esclusa la giusta causa di licenziamento

L’esercizio del diritto di critica da parte della lavoratrice che esterni la sua contrarietà all’espletamento di un corso di formazione e alle finalità dello stesso non può costituire giusta causa di licenziamento. Così si è espressa la Corte di Cassazione con l’ ordinanza del 30 settembre 2022, n. 28515.

La Corte d’appello di Napoli dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice, alla quale la società datrice aveva contestato, quale condotta posta a base del recesso, l’esternazione, durante un corso di formazione e alla presenza dei colleghi di lavoro, della sua contrarietà all’espletamento dell’attività di formazione e alle finalità della stessa, in maniera tale da arrecare grave disturbo all’espletamento del corso stesso, nonché l’invito rivolto ai colleghi di lavoro presenti a non subire gli atteggiamenti, a suo dire, inquisitori della società.

I giudici di merito, rilevavano, a fondamento della decisione, che l’episodio contestato all’origine del provvedimento espulsivo non appariva grave sia nella sua portata soggettiva che sotto il profilo oggettivo. Nell’ ambito della valutazione di proporzionalità compiuta, la stessa Corte teneva conto del periodo di servizio prestato dalla dipendente, dell’assenza di precedenti disciplinari, della posizione della dipendente stessa all’interno dell’organizzazione aziendale, delle modalità di commissione delle violazioni e dell’ inesistenza di un danno provocato all’azienda. Ciò posto, giudicava eccessiva la sanzione espulsiva irrogata alla medesima lavoratrice.
Tale decisione è stata impugnata con ricorso per cassazione dalla società.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, evidenziando che la società ricorrente, da un lato, aveva contestato, nel caso di specie, comportamenti della lavoratrice reputati, di contro, dai giudici di merito non provati o non provati nei termini addebitati e, dall’altro, aveva dedotto che il dovere di collaborazione e di correttezza può ritenersi violato anche quando il dipendente assuma una posizione di aperto contrasto verso il piano organizzativo e di riqualificazione dell’azienda e/o con un corso di formazione per i dipendenti, incitando anche gli altri lavoratori a non collaborare.
Sul punto il Collegio ha osservato che la Corte territoriale non aveva considerato provata una condotta di incitamento, avendo tenuto conto soltanto della condotta che la stessa dipendente aveva riconosciuto, ossia di essersi rivolta agli altri colleghi per esortarli a non subire gli atteggiamenti inquisitori della società nei corsi.

Premesso, dunque, che la società rappresentava i fatti contestati alla lavoratrice in termini difformi da quelli accertati, molto più riduttivamente, dai giudici di merito, i giudici di legittimità hanno ritenuto non meritevole di accoglimento il ricorso. Quest’ultimo, difatti, incentrandosi sull’aver la Corte di merito negato la ricorrenza della giusta causa di licenziamento, da un lato, criticava l’apprezzamento delle circostanze del caso concreto compiuto in secondo grado e, dall’altro, non teneva conto di quanto effettivamente il giudicante aveva reputato provato e, tuttavia, ritenuto insufficiente a fondare una giusta causa di licenziamento.

In proposito è stato ribadito dalla Corte che la giusta causa di licenziamento, quale nozione ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali, delinea un modello generico che deve essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se privo, come nel caso in esame, di errori logici o giuridici.