L’abitazione paga l’IMU se il coniuge risiede in altro Comune

La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo il quale l’esenzione IMU prevista per l’abitazione principale non è applicabile qualora il coniuge non legalmente separato abbia la residenza e la dimora abituale in altro Comune (Ordinanza 17 gennaio 2022, n. 199).

La controversia riguarda l’applicazione dell’esenzione IMU per abitazione principale nel caso in cui i coniugi abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi ubicati in Comuni diversi.
Il Comune ha emesso avviso di accertamento per il recupero dell’IMU a seguito del disconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale, avendo rilevato che il coniuge non legalmente separato aveva la residenza e la dimora abituale in un altro Comune.
I giudici tributari hanno accolto il ricorso del contribuente e annullato l’avviso di accertamento rifacendosi ad un’interpretazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze secondo cui il legislatore non avrebbe limitato l’applicazione dell’agevolazione per l’abitazione principale nel caso in cui gli immobili destinati ad abitazione principale siano ubicati in Comuni diversi, poiché in tale ipotesi il rischio di elusione della norma risulterebbe bilanciato da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro Comune, ad esempio, per esigenze lavorative.
Il Comune ha impugnato la decisione.

La Corte di Cassazione ha riformato la decisione dei giudici tributari, stabilendo il definitivo rigetto del ricorso introduttivo della contribuente.
La Corte Suprema ha affermato che “in tema di IMU, l’esenzione prevista per la casa principale richiede non soltanto che il possessore e il suo nucleo familiare dimorino stabilmente in tale immobile, ma altresì che vi risiedano anagraficamente”.
Secondo la disciplina vigente per il periodo oggetto di accertamento (anno 2012) l’IMU non si applica al possesso dell’abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile.
La norma, dunque, non disciplina espressamente il caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili non solo diversi, ma anche situati in differenti comuni.
In proposito la Suprema Corte ha precisato che nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed autonoma rispetto ai suoi singoli componenti) resta, unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare. La nozione di abitazione principale postula, pertanto, l’unicità dell’immobile e richiede la stabile dimora del possessore e del suo nucleo familiare, sicché non possono coesistere due abitazioni principali riferite a ciascun coniuge sia nell’ambito dello stesso Comune o di Comuni diversi.
In definitiva, ai fini dell’agevolazione IMU, l’abitazione principale è solo quella ove il proprietario e la sua famiglia abbiano fissato:
– la residenza (accertabile tramite i registri dell’anagrafe);
– la dimora abituale (ossia il luogo dove la famiglia abita la maggior parte dell’anno).
Sottolineando che l’interpretazione delle norme di agevolazione fiscale, che hanno natura eccezionale, deve essere necessariamente rigorosa e non consente quindi, la loro estensione ai casi non espressamente previsti, perché costituiscono comunque deroga al principio di capacità contributiva sancito dalla Costituzione, la Corte Suprema ha precisato che la suddetta interpretazione risulta anche costituzionalmente orientata, perché, diversamente opinando, si realizzerebbe una frattura evidente dei principi costituzionali, sotto il profilo dell’uguaglianza e della capacità contributiva.
In conclusione, ai fini dell’agevolazione IMU, deve escludersi che l’immobile possa ritenersi abitazione principale, qualora il coniuge non legalmente separato abbia la residenza e la dimora abituale in un altro Comune.

Reddito di cittadinanza per l’ammissione al gratuito patrocinio

Forniti chiarimenti sulla rilevanza del reddito di cittadinanza per l’ammissione al gratuito patrocinio ai sensi dell’articolo 76 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Agenzia delle entrate – Risposta 19 gennaio 2022, n. 31).

Il patrocinio per i non abbienti (cd. ” gratuito patrocinio”) è previsto dall’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (“Testo unico spese di giustizia”).
Ai sensi del comma 1 del successivo articolo 76 può essere ammesso al gratuito patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 11.746,68.
Il medesimo articolo 76 al comma 2 stabilisce che se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso il soggetto istante. In tal caso, ai sensi dell’articolo 92 del Testo unico spese di giustizia, i limiti di reddito sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.
Il citato articolo 76, al comma 4, prevede che si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi.
Tale ipotesi si verifica anche nei procedimenti di separazione (pure se consensuale ex art. 711 c.p.c.); pertanto, ai fini dell’applicabilità della disciplina del gratuito patrocinio, il reddito del ricorrente non deve essere cumulato con quello del coniuge convivente, poiché la sussistenza di un conflitto di interessi tra le posizioni dei coniugi rende operante la deroga di cui al citato articolo 76, comma 4, del Testo unico spese di giustizia (cfr. sentenza della Corte di Cassazione n. 20545 del 29 settembre 2020).
Ai sensi del comma 3 del medesimo articolo 76 del Testo unico spese di giustizia, ai fini della determinazione dei limiti di reddito per poter accedere al gratuito patrocinio, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva.
Ai fini della determinazione del reddito rilevante per l’ammissione al gratuito patrocinio, pertanto, è incluso anche il c.d. reddito di cittadinanza, introdotto con il decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni con la legge 28 marzo 2019, n. 26.
Tale beneficio consiste in un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari, associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro ed un Patto per l’inclusione sociale.
Ai sensi dell’articolo 2 del citato decreto legge n. 4 del 2019, il reddito di cittadinanza è riconosciuto ” ai nuclei familiari”, al ricorrere di requisiti soggettivi e reddituali, espressamente previsti dal medesimo decreto legge, che definiscono la condizione economica rilevante per l’erogazione del sussidio.
Alcuni dei predetti requisiti sono da verificarsi in capo al componente richiedente il beneficio, altri sono da verificarsi in capo al nucleo familiare nel suo complesso, altri attengono a ciascun componente del nucleo familiare singolarmente considerato.
La determinazione della soglia reddituale al di sotto della quale è riconosciuto il beneficio dipende dal parametro della scala di equivalenza di cui all’articolo 2, comma 4, che fa da moltiplicatore in base al numero di componenti del nucleo familiare.
L’articolo 3, comma 7, del decreto legge n. 4 del 2019 prevede, inoltre, la possibilità di erogare il reddito di cittadinanza suddiviso per ogni singolo componente maggiorenne del nucleo familiare e che tale disposizione è stata recentemente attuata con il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 30 aprile 2021.
Ai sensi dell’articolo 4 del citato decreto 30 aprile 2021, se è richiesta l’erogazione suddivisa del reddito di cittadinanza, vengono emesse più carte, corrispondenti al numero di persone cui deve essere liquidata la prestazione attraverso dette carte.
Le illustrate disposizioni consentono, quindi, di individuare la quota del reddito di cittadinanza di pertinenza di ciascun componente maggiorenne del nucleo familiare.
Con specifico riferimento al quesito posto dalla contribuente in merito alla misura con cui il reddito di cittadinanza riconosciuto al nucleo familiare rilevi nella determinazione del proprio reddito personale, al fine di verificare l’ammissibilità al gratuito patrocinio nel giudizio di separazione dal proprio coniuge, il predetto coniuge è soggetto richiedente il reddito di cittadinanza che è anche l’intestatario della Carta Rdc mediante la quale è erogato il beneficio economico ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del citato decreto legge n. 4 del 2019.
Nel caso rappresentato, il reddito di cittadinanza è stato riconosciuto in favore del nucleo familiare di cui fa parte anche l’Istante che dichiara di ” beneficiare” del predetto reddito attraverso la carta intestata al coniuge. Pertanto, ai fini della ammissione al patrocinio gratuito, nella determinazione del reddito personale andrebbe considerato anche il predetto reddito per la quota del 50 per cento, nel presupposto che nel nucleo familiare, oltre ai due coniugi, non ci siano altri componenti maggiorenni.

Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale

19 genn 2022 In tema di infortunio sul lavoro, il riscontro della colpa deve essere il risultato di un processo ricognitivo che individui a monte, secondo una valutazione ex ante, la regola cautelare che si assume violata.

La Corte d’appello territoriale ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato il datore di lavoro e il resposabile della sicurerezza responsabili del reato loro ascritto di lesioni colpose, per violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. Al datore, si rimprovera di non aver individuato il rischio connesso al pericolo derivante dal possibile contatto accidentale delle parti del corpo esposte del lavoratore con le parti in movimento del tornio, ed in particolare di non aver munito il macchinario di uno schermo frontale di protezione; al responsabile, invece, si rimprovera di aver sottovalutato il rischio derivante dall’utilizzo del tornio in assenza di protezione frontale; al legale rappresentante della ditta produttrice del tornio, si addebita di aver venduto un macchinario sprovvisto di apposita protezione dagli organi in movimento.
La ritenuta necessità di uno schermo “protettivo” sul macchinario in questione appare frutto di un ragionamento creativo, secondo la logica del “senno del poi”, che, come noto, non può fondare il giudizio di colpevolezza colposa. In tale ambito, infatti, il riscontro della colpa deve essere il risultato di un processo ricognitivo che individui a monte, secondo una valutazione ex ante, la regola cautelare che si assume violata.
La sentenza impugnata, di contro, ha individuato la regola cautelare sulla base di una valutazione ricavata “ex post” ad evento avvenuto, in maniera del tutto astratta e svincolata dal caso concreto: non ha, infatti, considerato la fase di lavorazione in cui si è verificato l’incidente e non si è posta il problema di quali fossero le misure di protezione previste per quella specifica fase.
La motivazione si limita a prendere atto della condotta colposa del lavoratore definendola non abnorme; e liquida come mera “illazione” la (invece) corretta considerazione difensiva secondo cui la presenza dello schermo richiesto (ma apparentemente non previsto neanche dalla normativa UNI dianzi indicata) non avrebbe comunque scongiurato il verificarsi dell’evento, visto che il lavoratore avrebbe comunque dovuto aggirarlo per accedere al pezzo lavorato, inserendo la mano nell’organo in movimento.
In conclusione, le argomentazioni su cui si fonda la responsabilità dei prevenuti non hanno adeguatamente valutato la circostanza che il tornio era dotato di un apposito dispositivo di protezione, in relazione alla fase lavorativa nel corso del quale è avvenuto l’infortunio, costituito dal pedale del freno: azionandolo, il mandrino si sarebbe fermato, consentendo all’operaio di prelevare il pezzo senza problemi.
La regola cautelare dello schermo “protettivo” è stata ricavata ex post ed in maniera congetturale dai giudici di merito, senza una effettiva analisi dell’utilità e percorribilità in concreto di una simile soluzione alla luce delle modalità di funzionamento del macchinario e, soprattutto, della fase di lavorazione in cui si è verificato l’infortunio.

Risoluzione mutuo consenso contratto di compravendita

Chiarimenti sul corretto trattamento tributario , ai fini della tassazione indiretta, applicabile all’atto di risoluzione della compravendita di immobile(AGENZIA DELLE ENTRATE – Risoluzione 18 gennaio 2022, n. 3/E)

Con riferimento al trattamento tributario applicabile, ai fini della tassazione indiretta, si osserva che l’articolo 28 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, prevede che la risoluzione del contratto è soggetta all’imposta in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto. Se è previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 6 o quella prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa.
In ogni altro caso l’imposta è dovuta per le prestazioni derivanti dalla risoluzione, considerando comunque, ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale, l’eventuale corrispettivo della risoluzione come maggiorazione delle prestazioni stesse.
Ai fini fiscali, occorre distinguere l’ipotesi di clausola risolutiva espressa, più o meno contestuale al contratto originario, dall’ipotesi in cui le parti, mediante autonoma espressione negoziale optino per la risoluzione del medesimo contratto originario. Ciò in quanto, nel primo caso, si applica l’imposta proporzionale solo se per la risoluzione è previsto un corrispettivo e solo sull’ammontare di quest’ultimo; in caso contrario, si applica l’imposta in misura fissa.
Nella diversa ipotesi in cui la risoluzione dell’originario contratto sia realizzata mediante apposito negozio, la citata disposizione prevede la tassazione in misura proporzionale, da applicare ” alle prestazioni derivanti dalla risoluzione”; la medesima tassazione proporzionale si applicherà, inoltre, all’eventuale corrispettivo della risoluzione.
La retrocessione della proprietà del bene oggetto del precedente atto di compravendita quale prestazione patrimoniale del contratto di mutuo consenso, rientra nell’ambito applicativo del comma 2 del citato articolo 28 e, pertanto, deve essere tassata autonomamente ai fini dell’imposta registro con applicazione dell’aliquota in misura proporzionale prevista per i trasferimenti immobiliari.

Contratto integrativo aziendale: disdetta dell’iscrizione a Confindustria e disapplicazione

La disdetta dell’azienda all’associazione sindacale dei datori di lavoro, non integra la disapplicazione del contratto integrativo aziendale, nel momento in cui l’azienda stessa attua una costante e prolungata applicazione delle relative clausole al singolo rapporto o di alcune di esse. (Corte di Cassazione, Ordinanza 13/1/2022, n. 935)

E’ quanto ha affermato la Corte di Cassazione con Ordinanza del 13 gennaio 2022, n. 935, chiamata a decidere sul caso di un’azienda che successivamente all’atto di disdetta di adesione all’associazione nazionale di rappresentanza delle imprese – Confindustria – aveva continuato ad erogare ai lavoratori diverse voci retributive previste dal contratto integrativo interaziendale, mentre si rifiutava di pagarne altre. Rifiuto ritenuto pertanto illegittimo.

La Corte di merito ha affermato che la società, “ha continuato ad erogare tante e significative voci retributive e/o incentivanti e/o indennitarie, previste proprio dal contratto integrativo interaziendale (come “ex ristrutturazione salariale”, “premio di produzione”, “premio di produttività e qualità”, “premio di partecipazione – parte fissa”, “buoni pasto”)”.
Dalla costante e prolungata applicazione di tali istituti, la Corte Suprema, ha desunto che la ricorrente, pur avendo dato la disdetta dall’associazione sindacale dei datori di lavoro, implicitamente avesse mantenuto l’applicazione della contrattazione collettiva.
Principio più volte affermato dalla Corte (cfr. Cass. n. 24336 del 2013, 10213 del 2000, 10375 del 2001): la valutazione che porta a ritenere sussistente l’implicito recepimento di un contratto collettivo attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole al singolo rapporto costituisce un accertamento di fatto spettante al giudice di merito, insindacabile nella sede di esame.

Pertanto, la Corte di merito ha compiuto siffatta valutazione, pervenendo alla conclusione della adesione implicita, da parte della società, alla contrattazione collettiva. Peraltro, la società ricorrente nemmeno ha indicato ulteriori istituti contrattuali (del contratto integrativo interaziendale) dalla medesima non applicati (oltre al premio di partecipazione – parte variabile) al fine di escludere tale adesione, limitandosi ad affermare che per conseguire tale effetto fosse necessaria una costante e prolungata applicazione di “tutte” le clausole pattizie.
In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato dalla società.